Un paio di mesi fa parlo a mio padre dei racconti del nonno. Gli dico che mi piacerebbe conservarli.
Ma in che modo? Bisognerebbe fare un video di lui che racconta, perché come le racconta lui le cose non le racconta nessuno. Ti fa sfiorare le sue stesse emozioni, ti rende partecipe, aggiunge suspence, ti fa entrare nella storia.
Se è vero che ognuno ha un modo di esprimersi preferito, quello di mio nonno è il racconto a voce. Qualcuno si esprime bene scrivendo, altri suonando, altri cantando o disegnando. Lui riesce a raccontare conquistando chi ascolta.
Me ne accorgevo quando i clienti si scompisciavano dal ridere.
Me ne accorgo durante il pranzo di Natale, quando gli altri parenti restano estasiati ad ascoltarlo.
Me ne accorgo anche mentre provo a raccontare la storia, sempre la stessa, che lui mi raccontava nel suo lettone, quando nei pomeriggi d’estate mi obbligavano a fare il pisolino e io non volevo. Chi ascolta non rivive le mie stesse emozioni, non riesco a trasmettere lo stesso fascino.
Ma il video non va bene. Lo so io che non va bene. Lo scarto.
Lo scarto perché davanti alla videocamera il nonno si blocca, diventa impacciato, non gli piace, si imbarazza.
Lo scarto perché ho poco tempo. E so che se non lo faccio io non lo fa nessuno. Ma ho poco tempo.
Il tempo, la dimensione che preferisco, quella che si percepisce in modi sempre diversi, a seconda dei momenti della vita. La dimensione che per me, adesso, è così stretta.
Dico a mio padre che continuerò ad ascoltarli e li conserverò nella mia memoria.
Passa un mese.
Mio padre incontra suo suocero, mio nonno, e gli dice che dovrebbe scriverli i racconti della sua vita. Adesso che arriva l’inverno ed è a casa, adesso che, finalmente, ha tempo.
Mio nonno me lo confida e io gli dico che è una buona idea.
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