Mio nonno faceva il tabaccaio. L’ha fatto fino a oltre 80 anni, per ben 40.
Dietro al banco della tabaccheria io ci sono cresciuto.
Quando ero piccolo, molto piccolo, lo aiutavo a compattare, pestandoli, gli involucri di carta delle stecche di sigarette. Così poteva svuotare lo scatolone una volta di meno. « Dai pesta tu – diceva – che io ho male alle gambe e non ce la faccio!». Che soddisfazione mi dava! Volevo che i miei piedi crescessero in fretta, così sarei diventato sempre più bravo a schiacciare la carta.
Appena imparai a scrivere i numeri mi fece fare i bigliettini con il prezzo delle sigarette. «Scrivi tu – diceva – che hai una bella calligrafia» e io ci credevo, e la calligrafia mi è venuta bella davvero.
Poi ho cominciato la scuola e al pomeriggio passavo sempre a fargli vedere i quaderni, per fargli vedere i voti, che dovevano sempre essere belli. Non lo volevo deludere. «Mi raccomando – diceva - calligrafia e tabelline». Mio nonno è arrivato fino alla quinta elementare. Ai suoi tempi era un bel traguardo, e sapeva le tabelline benissimo. Le tabelline le ha usate fino a 80 anni. Per i conti più complessi c’erano solo carta e penna, non ha mai usato una calcolatrice. «Cinque volte sette? Otto volte nove? Quattro volte sei?» mi interrogava, e io gli dicevo che le tabelline non me le insegnavano così. « E’ così che le devi imparare – rispondeva - perché è l’unico modo per poter fare i conti velocemente». A 83 anni faceva ancora i conti a mente con una precisione impressionante.
Ero adolescente quando cominciò a presentarmi alle ragazzine che venivano a prendersi le caramelle. «Buongiorno signorina! Ha visto che bel nipote che ho?». Io arrossivo, ma lui era così simpatico ed educato che ridevano e gli davano sempre ragione. «Allora te la sei trovata la morosa?» chiedeva e io gli raccontavo quello che potevo.
Nell’età delle marachelle io, almeno in paese, non ne potevo fare una che lui la sapeva prima di me. La gente glielo andava a dire. «L’ho visto impennato in motorino» «Ma non dovrebbe essere a scuola stamattina?» e via così. Che peso a quell’età avere il nonno tabaccaio! Ma quando avevo bisogno di qualcuno, lui c’era. Sempre.
Forse è stata proprio la tabaccheria il fuoco di questo rapporto speciale. A volte non si parlava, ma eravamo assieme, e questo bastava. Quando non avevamo niente da dirci mi raccontava della sua vita. Quanti aneddoti, che vita intensa!
Io e lui a combattere in prima linea il giorno di mercato. Era un continuo via vai di amici suoi che lo venivano a salutare. E io ascoltavo i loro racconti, e li ascoltavo mentre cantavano assieme. Perché a mio nonno piaceva cantare. Ed era pure bravo.
Poi son diventato grande, e i discorsi son cambiati. E mio nonno mi ha consigliato. I consigli sani, quelli degli uomini di una volta.
Mio nonno ha pianto quando mi sono laureato. L’ho visto dalle foto. Lui, in piedi dietro di me, perché non riusciva a star seduto dalla tensione, con il bastone in mano e gli occhi rossi.
È stato un mio traguardo, ma anche suo. Voleva arrivare lì, a vedermi con l’alloro in testa.
Poi ha deciso di mollare l’impegno della tabaccheria. Per quarant’anni alle otto in punto è stato lì, rasato, vispo e ben vestito. Improvvisamente un giorno mi ha detto «Basta, adesso sto a casa con tua nonna!» «Ma almeno al mattino vai - gli ho risposto - almeno vedi gente, parli…».
Ma mi sono reso conto che i suoi amici, quelli d’infanzia, sono morti tutti.
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