lunedì 14 ottobre 2013

Ciao nonno.

Mercoledì il nonno se n’è andato.
Il dolore è ancora troppo vivo e fatico a scrivere anche queste poche righe. È un fuoco che brucia. Più volte al giorno il cuore batte forte e mi pervade un senso di vuoto ed incredulità, di notte mi sveglio all'improvviso e penso a lui, ripercorro ogni istante dei suoi ultimi giorni, le ultime parole, sussurrate nel letto dell’ospedale: «Voglio andare giù». «Non posso, nonno», gli ho risposto, «devi stare tranquillo, ti rimetterai e appena si può ti aiuto a scendere.» L’ho salutato, rubando minuti all'orario delle visite: «… ci vediamo domani». Quante volte l’ho salutato così. Ma quel domani se n’è andato prima del mio arrivo. E chi se l’aspettava?
Ha lasciato la vita nel pieno della sua dignità, come è sempre stato: un piccolo, grande uomo.
Ho pianto così tanto e così a lungo che non mi nascondo neanche più.
Ho svelato il segreto di queste pagine ad un'unica persona, lasciando a loro il compito di trasmettere alcuni dei miei ricordi. Quindi ora siamo in due a poter associare un volto e un nome alle parole.
Venerdì il funerale. Al mattino sono andato a correre, per scaricare la tensione che avevo dentro, e mi sono ritrovato a piangere correndo. Contrariamente ad ogni previsione era una giornata bellissima - una finestra di cielo limpido, aria pulita e piacevole temperatura - incastrata tra molti giorni di incertezza autunnale.
Come piace a lui: calore e luce.
Sembrava un regalo, la sua decisa volontà. L’ho sentito, che mi diceva di non piangere, che a pensare a lui dovevo solo essere felice. Perché ha sempre chiesto solo sorrisi.
Nonostante la sofferenza, la cerimonia è stata una delicata infusione di vita, conclusa con la forza melodiosa della tromba, il suo strumento.
Fatico ad immaginare il paradiso, ma sono certo che, se esiste, l’anima del nonno è lì.
Quaggiù ci sono tracce dappertutto: percepisco parte di lui in me e intorno a me, per genetica - nelle sembianze e nei modi di fare di mia madre e delle mie zie, delle mie sorelle, delle mie figlie, dei miei cugini - e nelle tante persone che in questi giorni, pensando a lui, hanno lasciato affiorare un sorriso o si sono ritrovati inconsapevolmente a canticchiare canzoni di un tempo e brevi melodie.
La nonna, unica custode del suo amore assoluto e dei suoi pensieri più intimi, c’è. Una roccia rigata dagli eventi ma rafforzata dal tempo. Io sono con lei.
Una sola cosa avrei voluto dirgli ancora: «Grazie, per essere stato il mio nonno.»

Ciao nonno.

giovedì 5 settembre 2013

La storia del Gallo Castaldo

Osservo il profilo del nonno in penombra, è già mezzo addormentato, ma io non ho sonno e quindi devo farla durare il più possibile. La storia del Gallo Castaldo può durare tre minuti o trenta, a seconda di quanti particolari si aggiungono, e io sono pronto a richiederne. Il nonno inizia, io ho le nocche già sulla testiera di legno per simulare il rumore dei cavalli al trotto. Il nonno racconta in dialetto veneto, la lingua di ogni giorno, la storia che gli raccontava suo nonno:

- C’era una volta un gallo che viveva in un pollaio. Era un gallo grande, con il petto grosso così, le penne lunghe e rosse, una cresta grande grande. Si chiamava Gallo Castaldo.
Un giorno arrivò il postino e gli consegnò una lettera.
«Wow, una lettera per me!», esclamò il gallo, «chissà chi è che mi scrive.»


Aprì la busta, si mise gli occhiali e iniziò a leggere: “Caro Gallo Castaldo, sono tuo cugino il tacchino, domenica mi sposo e sei invitato al mio matrimonio. Con questa lettera ti mando anche la lista degli invitati che abitano dalle tue parti, così, se li incontri per strada potete venire tutti assieme.” 
«Un matrimonio, che bello!», esclamò il Gallo Castaldo, «Castaldina!», chiamò sua moglie, la Gallina Castaldina, «preparati che andiamo al matrimonio di mio cugino il tacchino!»
Il Gallo Castaldo si fece il bagno, indossò una giacca e il fifì, si mise persino il gel nella cresta per farla stare più dritta. Poi si fece prestare una carrozza e quattro cavalli bianchi. Intanto la Gallina Castaldina si era lucidata ben bene le penne nere, aveva preso la borsetta e si era messa pure il rossetto rosso sul becco. 
Così salirono in carrozza e partirono.
I cavalli facevano cloppete cloppete cloppete cloppete…
Vicino ad un laghetto c’era un’oca che li vide arrivare e si lanciò sulla strada. Il Gallo Castaldo tirò forte le redini, «Oooohhh», disse per fermare i cavalli.
«Buongiorno Gallo Castaldo, qual buon vento?», chiese l’oca.
«Stiamo andando al matrimonio di mio cugino il tacchino»
«Un matrimonio, che bello! Posso venire anch’io?»
«Vediamo se sei nella lista.»
Il Gallo Castaldo srotolò la lista, indossò gli occhiali e iniziò a leggere:
«Gaeo Castaldo, Gaina Castaldina, Oca Badessa. Vien che te ghe si anca ti!»
Così l’oca andò a prepararsi, si mise il cappello con un fiorellino, la gonna a fru fru, l’ombretto negli occhi, salì in carrozza e partirono.
Cloppete cloppete cloppete cloppete…
Arrivarono vicino ad una fattoria dove incontrarono un’anatra. Il Gallo Castaldo tirò forte le redini, «Oooohhh», disse per fermare i cavalli.
«Buongiorno Gallo Castaldo, dove andate così di corsa?», chiese l’anatra.
«Al matrimonio di mio cugino il tacchino» rispose il gallo.
«Un matrimonio, che bello! Posso venire anch’io?»
«Vediamo se sei nella lista.»
Il Gallo Castaldo srotolò la lista, indossò gli occhiali e iniziò a leggere:
«Gaeo Castaldo, Gaina Castaldina, Oca Badessa, Anara Contessa. Vien che te ghe si anca ti!»
L’anatra, tutta contenta, andò a profumarsi, mise le scarpe da festa, un fiocco sul collo e salì in carrozza.
Cloppete cloppete cloppete cloppete…
Dal ramo di un grande albero un grosso gattone nero saltò sulla strada. Era pieno di cicatrici sul muso perché faceva sempre lotta. Il Gallo Castaldo tirò forte le redini, «Oooohhh», disse per fermare i cavalli.
«Buongiorno, che bella compagnia, dove andate così di corsa?» chiese il gatto.
«Al matrimonio di mio cugino il tacchino.»
«Un matrimonio, che bello! Posso venire anch’io?»
«Vediamo se sei nella lista.»
Il Gallo Castaldo srotolò la lista, indossò gli occhiali e iniziò a leggere:
«Gaeo Castaldo, Gaina Castaldina, Oca Badessa, Anara Contessa, Gato Petenaro. Vien che te ghe si anca ti!»
Finalmente il gatto, che era sporco e puzzava, si fece un bel bagno e, persino, si limò le unghie. Salì in carrozza e partirono.
Cloppete cloppete cloppete cloppete…
Prima del bosco incontrarono un agnellino che giocava nel prato. Il Gallo Castaldo tirò forte le redini, «Oooohhh».
«Buongiorno Gallo Castaldo, dove andate tutti assieme?», chiese l’agnello.
«Al matrimonio di mio cugino il tacchino»
«Posso venire anch’io?»
«Vediamo se sei nella lista.»
Il gallo srotolò la lista, indossò gli occhiali e iniziò a leggere:
«Gaeo Castaldo, Gaina Castaldina, Oca Badessa, Anara Contessa, Gato Petenaro, Agneo Moltòn. Vien che te ghe si anca ti!»
L’agnellino si mise i bigodini sul pelo e lo fece diventare tutto a batuffoli, indossò la cravatta e salì in carrozza.
Cloppete cloppete cloppete cloppete…
Nel bosco un uccellino volò sulla carrozza. Il Gallo Castaldo tirò le redini, «Oooohhh».
«Buongiorno Gallo Castaldo, perché così di corsa?», chiese l’uccello.
«Andiamo al matrimonio di mio cugino il tacchino»
«Wow! Posso venire anch’io?»
«Vediamo se sei nella lista.»
Il Gallo Castaldo srotolò la lista, indossò gli occhiali e iniziò a leggere:
«Gaeo Castaldo, Gaina Castaldina, Oca Badessa, Anara Contessa, Gato Petenaro, Agneo Moltòn, Oseeto del Bosco. Vien che te ghe si anca ti!»
Così attraversarono tutto il bosco e arrivarono alla fattoria del cugino tacchino. Lì era tutto pronto, con le bandierine, le torte e i pasticcini. La cerimonia fu bella e veloce. Poi ci fu una grande festa, mangiarono, bevvero, ballarono, cantarono e tornarono a casa felici e contenti. –

«Nonno me ne racconti un’altra?» chiedevo. Ma il più delle volte, arrivati a stento a questo punto, il nonno iniziava a russare.



mercoledì 4 settembre 2013

Nonno, mi racconti una storia?

Nel post precedente (sono passati quasi due anni!) scartavo l’idea di una raccolta organizzata dei ricordi del nonno. Ho riletto i primissimi post e mi è piaciuto, quindi riprendo a scrivere, anche solo qualche semplice flashback.
Innanzitutto il nonno c’è e sta bene, come può star mediamente bene un prossimo novantenne con migliaia di chilometri sulle gambe acciaccate e affaticate: un lento rallentare verso la vera vecchiaia. Ma che fatica convincerlo ad usare la sedia a rotelle, almeno per quando è necessario spostarsi velocemente!
Ieri sera la nonna mi ha detto che oggi ha un appuntamento con il “maestro”: accompagnato da una delle figlie risponderà a qualche domanda sui tempi che furono e i suoi ricordi diventeranno parte di un libro. Non ho approfondito ma mi pare un’ottima notizia, almeno qualcuno ne farà tesoro.

Veniamo a noi.
Una storia, la preferita di mia figlia. Gliel’ho raccontata ieri, prima del pisolino di un pomeriggio assolato di settembre. Proprio come accadeva poco più di un trentennio fa. Solo che allora il bambino ero io.



Il letto del nonno è alto e per salirci devo alzare una gamba di lato, puntare un ginocchio e arrampicarmici aggrappandomi sulle lenzuola di cotone bianco, ruvido e profumato di sapone di Marsiglia. Il letto è di legno massiccio, costruito a mano da un artigiano, che già non c’è più, con pezzi di Noce nazionale incastrati tra loro e un po’ di colla. La rete è di metallo e cigola al minimo movimento. Sotto la tela il materasso è di lana, duro, spesso e pesante. Fuori fa caldo, ma si ricomincia a respirare dopo la calura di agosto. La camera è esposta a nord-est, quindi al pomeriggio è sufficientemente fresca per poter tenere la persiana abbassata e una fessura di finestra aperta. Entra un po’ d’aria e il monotono frinire delle cicale.
Io non voglio dormire, non ho sonno al pomeriggio.
«Nonno, mi racconti una storia?»
«Che storia?», strascica la voce già assonnata.
C’è una sola storia che il nonno conosce, la domanda è retorica. È la stessa storia che più di cinquant’anni prima gli raccontava suo nonno.
Mio nonno ha passato la sua intera infanzia con suo nonno, ma questa è un’altra storia.
«Quella del Gallo Castaldo!» mi preparo a fare ‘cloppete cloppete’ e a tamburellare con le dita sulla testiera di legno.

giovedì 13 ottobre 2011

Fase 1.1

Manca la voce, niente racconti!
Ad un uomo che è stato bene tutta la vita togligli la salute per un po’ e gli dai una mazzata. Così è stato. Ed è subentrata la depressione.
Mai avrei creduto che il nonno potesse essere depresso.
Improvvisamente un giorno l’ho trovato più carico del solito, con l’umore alle stelle, un vortice di allegria, come una volta…
«Il dottore mi ha prescritto una pastiglietta, una specie di ricostituente - mi ha detto - e io ne ho presa una al giorno per quattro giorni… oooh, mi sento un leone!!»
Troppa euforia anche per lui (e per la nonna) e così è tornato dal dottore.
«Un quarto al giorno ne deve prendere, non una intera!»
E così, gradatamente, con il buonumore è tornata anche la voce.
L’altro giorno, finalmente, cantava alla nipote con la sua voce da tenore “Tanti auguri aaa teee…

L’estate sembra avergli portato voglia di novità e se non cambia abbiamo così tante cose da fare, nel poco tempo che gli riesco a dedicare, che per un resoconto dettagliato dei suoi ricordi non c’è più posto.
Trascuriamo i ricordi per lasciar spazio alla vita, è meglio così!

Per questo progetto mi resta quella parte dei suoi racconti che si è riversata nella mia memoria.

mercoledì 12 ottobre 2011

Fase 1 - Maturazione

Sembra che il progetto iniziale stia naufragando.
È passato quasi un anno ma per il nonno sembra ne siano passati cinque. E anche per la nonna.
L’inverno scorso è stato lungo e per il nonno è stato come essere in letargo: l’ha passato quasi tutto in casa, perché faceva troppo freddo e aveva paura di ammalarsi. Alla fine si è ammalato lo stesso, di un male che lo ha colpito vicino alle corde vocali e sembrava avergli portato via la voce irrimediabilmente.
«Quanto ho cantato in vita mia…» mi ha detto faticosamente, con quella nuova voce bassa e roca «…se sapevo che finiva così avrei cantato ancora di più!»
Mai avrei creduto che al nonno potesse venir meno la voce.

giovedì 25 novembre 2010

Fase 0.3

Me lo aspettavo. Lo so da un po’ che fa fatica a scrivere. Sono un paio d’anni che il tratto di penna ha cominciato a rallentare sulle parole. Sui numeri no, quelli vanno ancora veloci, li traccia sul foglio grandi e ordinati, come ha sempre fatto. Ma le parole, quelle sembrano sempre più difficili da scrivere. È una questione fisica più che mentale: la testa va veloce, ma le mani rallentano. Non ci vede tanto bene da vicino e spesso sente un formicolio sulla punta delle dita. È normale, mi spiega, sono gli acciacchi della vecchiaia e di quella malattia con la quale convive da anni. Con la quale convivono quasi tutti gli anziani che conosco.
Mi intenerisce immaginarlo davanti al foglio bianco, con milioni di parole che si accavallano in testa, ma che non riescono a trovare la giusta strada verso il foglio.
Indugio e inconsapevolmente mi concentro sugli intrecci del suo maglione verde e marrone. L’ha fatto la nonna con i ferri da maglia l’inverno scorso e gli calza a pennello. Ha persino il colletto con tre bottoni in stile inglese.
Cerco di soffocare i miei pensieri per non lasciare che l’entusiasmo prenda il sopravvento.
La nonna con i ferri ha sempre fatto di tutto. Quand’ero piccolo mi faceva le babbucce, i pantaloncini da tenere in casa, il berretto, la sciarpa, le manopole e persino le coperte. Adesso che non servono più disfa le coperte, getta le parti usurate e con la lana recuperata fa i maglioni per il nonno. Perfettamente in linea con il principio neo-ecologista!
Capisco che lui sa già a cosa sto pensando. Non ho il coraggio di introdurre l’argomento, perché so che richiede un impegno troppo grande per me, almeno in questo momento.
Prende l’iniziativa e ci pensa lui.
«Tu sai scrivere. Io racconto a voce e tu scrivi – propone – tu, che scrivi così bene». Indugio. «Se hai scritto quel libro, sarà una passeggiata per te scrivere i miei racconti!».
Ha letto una specie di diario di viaggio che scrissi qualche anno fa, uno di quei testi che molti italiani tengono nel cassetto, incerti se renderli pubblici o tenerli per sé. Lo lesse tutto ad alta voce, così poteva sentire anche la nonna. Mi confida che è l’unico che ha letto dall’inizio alla fine.
Gli spiego che non può solo raccontare un breve episodio, mi dovrà un po’ descrivere anche i luoghi e le persone, le sensazioni, il contesto. Questo un po’ mi preoccupa perché ci sono stati eventi divertenti, ma anche molti drammatici, soprattutto legati alla guerra, e lui li rivive ogni volta, come se tornasse indietro nel tempo.
«Potremmo fare un po’ alla volta, mi piacerebbe, ci penso» gli rispondo.
Avrei una gran voglia di farlo, penso sia una cosa importante, che ne potrebbe venir fuori qualcosa di veramente bello. Ha avuto una vita straordinaria, che merita di essere raccontata. Mi devo convincere e devo organizzarmi con i tempi.
Il giorno dopo inizio a scrivere su questo blog “Lo faccio o non lo faccio?

domenica 21 novembre 2010

Fase 0.2

È un autunno grigio, ma ancora non fa veramente freddo. Una lieve brezza mi pizzica piacevolmente le guance finché salgo le scale, verso la cucina del nonno. Apre la porta e vengo investito da un tepore familiare.
La cucina economica è già accesa, la legna del campo, che ha raccolto durante l’estate, scoppietta dietro la porticina di acciaio. Credo che quella stufa sia vecchia come lui, o forse di più, ma gli scalda la sala da pranzo almeno per sei mesi all’anno. So che tra lì e le altre stanze della casa ci sono diversi gradi di differenza, perché al nonno piace il caldo, ma scaldare tutta la casa con la sua temperatura ideale costerebbe troppo. Non gli mancano i soldi, semplicemente è abituato da una vita a risparmiare. E poi lui ama il calore naturale e secco del legno che brucia.
Si siede a capotavola, dando le spalle alla cucina economica. Il suo posto è lì, in testa al tavolo. Quello è il posto del capo-famiglia e lui lo riempie tutto, come un re. La cucina è grande come può esserlo solo quella delle case di una volta, non potrebbe che essere così, altrimenti il tavolo non ci starebbe. Ci stanno dieci persone sedute attorno a quel tavolo. L’aveva fatto fare quando aveva una famiglia numerosa ed era certo che avrebbe sempre pranzato con le figlie e poi con i nipotini attorno. Ma ora prepara solo un terzo di tavolo, quello che basta per due – tre persone. Il resto resta vuoto. Per fortuna ogni tanto ci sono i giorni di festa, così lo riempie.
Mi parla del più e del meno. È felice, perché lo vado a trovare.
La nonna gli si avvicina e gli sistema i capelli bianchi sulla testa, abbozzando la riga da una parte con la sua mano amorevole. C’è tenerezza in quel gesto, anche se con le punte dure delle dita gli gratta un po’ il cuoio capelluto.
È tutto tondo mio nonno: la testa è tonda, la mandibola è squadrata ma senza spigoli, il naso è piccolo e tondo, gli occhi tondi, la pancia, pure quella è tonda. Anche il sorriso esprime una simpatica rotondità.
Ed è piccolo, quando si alza in piedi. È sempre stato piccolo, ma ora lo vedo più basso del solito, mi arriva sotto il mento. E io non sono certo alto, anche se la genetica paterna mi ha concesso qualche centimetro in più.
«Vorrei seguire il consiglio di tuo papà – afferma – allora mi sono comprato un quaderno dove riversare i racconti della mia vita…». È una bella cosa, penso, ma prima che glielo possa dire aggiunge: «Ci ho provato, ma… non riesco più a scrivere!»